17 ottobre 2012

Il lavoro

Premetto che oggigiorno lamentarsi del proprio lavoro è un delitto. Già, infatti la chiave di volta del delitto sta  in quell'aggettivo "proprio", dato che ormai avere un lavoro è un privilegio, una fortuna, o, come direbbero gli accademici della Crusca, è una botta di culo. Per cui un privilegiato, un fortunato o un benedetto dalla dea bendata non ha diritto di lamentarsi. Altrimenti compie un delitto.
Io non scrivo questo post per lamentarmi. Non voglio compiere delitti dato il mio posto statale di ruolo con qualifica dirigenziale ed uno stipendio che molte famiglie sognano anche facendo la somma di tutti i redditi che a loro afferiscono e che io ho interamente a disposizione solo per me visto che sono felicemente un cuore solitario (arrivare alla consapevolezza che questa è la condizione personale migliore è una fortuna, un privilegio o, se preferite, un'altra botta di culo almeno pari a quella di avere un lavoro!).
E' però innegabile che in ogni lavoro, a meno che non si sia strettamente in proprio, vi siano dei problemi, e che il 99% di questi siano di tipo relazionale con superiori e colleghi. Credo che si insito nei nostri geni che la convivenza per molte ore al giorno (e nel mio caso, spesso, anche della notte... ok, ma non fraintendiamo eh!) a fini lavorativi non possa che finire, molto presto, con rivalità, inimicizie, invidie e malumori. Ma la ricetta per essere immune da questo c'è: essere oggettivamente superiori agli altri nella qualità del proprio operato. Può sembrare banale, ma è tutto qui. Perché se questo accade si finisce per accettare con un sorriso qualsiasi atteggiamento o mansione pseudopunitiva che il capo ci commina con l'unico scopo di lasciare la "parte migliore" ad altri. Ed è demenziale vedere i "colleghi" che si accalcano come ratti di fogna su una crosta di formaggio o come porci al truogolo per un po' di mais gettato loro dal capo. E viene ancora più da sorridere con molta compassione osservare cosa non fanno i porci e ratti predetti per quel mais e formaggio. Nel mio "gruppo di lavoro" vi sono un paio di soggetti che leccano il culo al capo in una maniera davvero imbarazzante. Potremmo senz'altro dire che gli fanno il bidè con la lingua ventiquattro ore al giorno, trecentosessantacinque giorni l'anno. Sono praticamente dei bidè umani che corrono accovacciati tra le cosce del capo e che hanno come unico strumento di lavoro la lingua.
Dietro questa mia visione c'è dell'invidia? No, nella maniera più assoluta. C'è solo la consapevolezza di saper affrontare con professionalità e competenza praticamente ogni problematica lavorativa che mi si dovesse presentare. I ratti e i porci di cui prima sono ben lontani da poter affermare questo e, poveretti, nemmeno se ne rendono conto... e fanno, fanno di tutto e di più, e lo fanno impunemente con il bene placido del losco figuro a cui leccano il culo che altro non è a sua volta un ratto portato al comando da dei politici il cui nome tristemente sarebbe noto a chiunque, da Trento a Lampedusa, dovesse leggere questo mio post. Il capo... un mediocre, arrogante, violento, estremamente maleducato... ed ultimamente sempre più sordo e con segni molto preoccupanti di una incipiente forma di demenza (cerebrovascolare? Alzheimer?); dimentica quello che ha detto o che gli è stato detto non più tardi di cinque minuti prima, o ne asserisce il contrario. Poveretto, è malato... ma ha il terrore della pensione e sta aggrappato a quel posto in maniera patologica. Però molto del suo squallore non è legato solo alla malattia, è l'essere più vigliacco che abbia mai conosciuto e non mi risulta che la vigliaccheria abbia una classificazione nosologica. Fa una montagna di cazzate, ma la responsabilità di queste non è mai sua, vive sulle ossa di capri espiatori. E a fronte di questo è di gran lunga da preferire un altro suo atteggiamento frequente che è quello di fuggire (fisicamente!!!) di fronte alle difficoltà... salvo poi ovviamente, usando qualunque tipo di pretesto, trovare assolutamente sbagliato ed inadeguato l'operato di chi il problema l'ha effettivamente risolto.
Bene, essere un ingranaggio dentro una macchina come quella che ho descritto è una cosa che in trent'anni può portare prima alla depressione e poi alla malattia fisica e alla morte. Io ne sono riuscito ad uscire, riesco a guardare la macchina dall'esterno sapendo di essere adeguato a funzionarne nel ruolo di qualsiasi ingranaggio, facendolo però solo quando è necessario, secondo le modalità che ritengo opportune e per il tempo che serve. E per il resto del tempo rido, rido a crepapelle dei ratti, dei porci e dei bidè dotati di gambe e di una lingua eternamente attiva.